Erdogan, il colpo di Stato, la guerra civile: la Turchia un anno dopo

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Diyarbakir
Il centro di Diyarbakir dopo i bombardamenti. Photo: AFP
Il tentativo di colpo di Stato non è un caso isolato. In Turchia la violenza regna da un anno. In Turchia c’è, da tempo, la guerra civile.
Viaggio a Suruc
La delegazione istituzionale sarda a Suruc, con la sindaca del paese.
Foto: Roberto Mulas

Il 7 luglio del 2015, un anno fa, tornavo da una visita nel sud est della Turchia, regione a maggioranza curda, durante la quale, assieme ad una delegazione istituzionale della Regione Sardegna avevo avuto la possibilità di visitare due campi profughi in cui venivano rifugiati profughi iracheni e siriani in fuga da ISIS, di conoscere l’esperienza della resistenza curda contro lo stato islamico (su tutte la visita al confine siriano presso Kobane) e di conoscere la realtà politica curda, soprattutto in relazione alla politica turca [1]. Da allora ho seguito più o meno con attenzione gli avvenimenti in Turchia. Purtroppo il tentativo di colpo di stato di ieri non è un fatto estemporaneo. Da quando ho lasciato l’aeroporto di Istanbul a ieri sono successe tante cose, che forse è utile per tutti quanti ripercorrere, per provare a comprendere meglio la dinamica dell’evoluzione politica in Turchia, soprattutto in relazione alle implicazioni con le politiche europee che ci riguardano da vicino.

LA QUESTIONE CURDA IN BREVISSIMO
In Turchia esiste una questione secolare che riguarda la popolazione curda, un’etnia che si trova distribuita tra Turchia, Iraq, Iran e Siria. Il popolo curdo, in seguito a una storica e violenta emarginazione e discriminazione praticamente in tutti gli stati nazionali in cui si trova, ha più volte rivendicato la costituzione di uno stato curdo. In particolare, un grande lavoro in questa direzione è avvenuto a partire dalla seconda metà degli anni ’70, con la costituzione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) [2], il cui fondatore Abdullah Ocalan è tuttora in vita ma si trova in carcere in Turchia come prigioniero politico. Il PKK ha rivendicato l’indipendenza di uno stato curdo in Turchia scontrandosi con le armi con il governo turco attraverso diversi episodi di guerriglia. Il PKK è stato dichiarato “fuori legge” e ritenuto dal governo turco e dalla maggior parte dei governi mondiali un gruppo terroristico. Gruppi organizzati del PKK esistono ancora nelle montagne al confine con l’Iran e l’Iraq. Un tentativo di svolta nonviolenta del conflitto curdo-turco è avvenuta proprio per merito di Ocalan, il quale, dalla prigione, si è detto disponibile alla rinuncia dell’istituzione di uno stato curdo e alla progressiva restituzione delle armi da parte del PKK a seguito di una maggiore autonomia delle regioni curde e al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, per i quali la Turchia non è proprio famosa [3, 4]. Tale accordo è, di fatto, l’applicazione della dottrina politica del Confederalismo Democratico elaborata dallo stesso Ocalan alla fine degli anni ’90 [5] e famosa per essere applicata con successo nella Regione Autonoma del Rojava, formalmente in Siria, in cui insiste la città di Kobane [6]. Grazie alla svolta democratica del PKK, molti curdi sono riusciti ad entrare nel Parlamento turco attraverso partiti legali, come il partito di recente formazione HDP (Partito Democratico del Popolo), che raccoglie circa il 10% dei consensi su scala nazionale e nelle regioni a maggioranza curda esprime il governo di numerose città. Il successo dell’HDP sta anche nella rinuncia ad essere un partito “etnico”, cioè esclusivo degli interessi curdi. L’HDP si propone di rappresentare gli ultimi, i disoccupati, gli emarginati e di promuovere il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente e dei principi democratici a prescindere dalla questione curda, rappresentando un’avanguardia di sinistra nell’intera area del medio oriente [7]. Basti pensare alla difesa dei principi della differenza di genere e alla tutela dei diritti per le coppie LGBTQ. Ad esempio, ogni città governata dall’HDP esprime due co-sindaci, uno di genere maschile e uno di genere femminile, con pari dignità e potere [8].

Diyarbakir
Il centro di Diyarbakir dopo i bombardamenti.
Foto: AFP

UN ANNO DI TENSIONI E DI GUERRA CIVILE
Recep Tayyip Erdogan, che fu eletto Primo Ministro nel 2003 e ha esaurito il suo mandato nel 2014, per poi diventare Presidente della Repubblica, in una prima fase sembrava aver risposto positivamente alla nuova disponibilità politica di Ocalan, ma già quando visitammo la Turchia l’anno passato, i curdi denunciavano non solo una svolta autoritaria, ma anche il collaborazionismo di Erdogan con i gruppi terroristici di ISIS, che invadevano la regione curda del Rojava, trucidando famiglie intere a Kobane e costringendo le truppe del PKK a riprendere in mano le armi e ad organizzare la resistenza [9]. Nei piani di Erdogan, i miliziani di ISIS sono insomma utili per “ridimensionare” i sogni di autonomia curda. Esponenti locali dell’HDP ci mostrarono documenti fotografici che ritraevano soldati turchi in atteggiamenti amichevoli con miliziani dell’ISIS. Ma le relazioni tra il governo turco e i terroristi di ISIS non sono qualcosa di troppo segreto. Praticamente tutti i foreign fighters che dall’Europa raggiungono i campi di addestramento dell’ISIS per unirsi alla “causa jihadista” passano indisturbati dai confini della Turchia [10]. Di fatto, ufficialmente, la Turchia prende parte all’offensiva militare della NATO contro lo Stato Islamico, ma, nella pratica, esistono prove concrete della collaborazione, anche di natura economica [11]. Perfino il viceresidente degli Stati Uniti Joe Biden ha denunciato come in questi ultimi anni la Turchia abbia foraggiato con soldi e armi le fila dei ribelli jihadisti in Siria [12]. Quindici giorni dopo aver lasciato il kurdistan turco, il 20 luglio 2015, un attentato di matrice ISIS a Suruc, al confine con la Siria, paese alle porte di Kobane che la nostra delegazione aveva visitato, uccide 30 persone e ne ferisce un centinaio [13]. Molti, tra cui gli esponenti del partito HDP, accusano Erdogan di non aver fatto nulla per fermare l’attentato, ma anzi di averlo favorito [14]. La tensione tra i curdi e il governo di Erdogan, che già era palpabile durante la nostra visita, sale in vista delle elezioni del 1 novembre 2015, elezioni sulle quali Erdogan punta molto per conquistare con il suo partito AKP la maggioranza assoluta che gli consentirebbe di modificare la Costituzione e rendere il suo potere ancora più autoritario. In molti pensano che l’atteggiamento di Erdogan nei confronti dei curdi serva a raccogliere i numerosi voti dei nazionalisti e ad aumentare così il suo bacino elettorale. Con il pretesto della guerra al terrorismo, Erdogan bombarda i monti a est della Turchia dove però non ci sono terroristi dell’ISIS, bensì le basi del PKK, rompendo di fatto la tregua [15]. Le elezioni si svolgono in un clima di tensione, con molte città curde soggette al coprifuoco. Il 10 ottobre, durante un corteo pacifista ad Ankara, due bombe uccidono 95 persone e ne feriscono 245. Molti dei morti sono curdi, ma il presidente del Consiglio Davutoglu, vicino ad Erdogan, accusa il PKK dell’attentato [16]. A Diyarbakir, principale città a maggioranza curda in Turchia, la tensione è alle stelle, con episodi di uccisioni di civili curdi da parte dei militari turchi [17]. Due emittenti televisive vicine all’opposizione vengono messe sotto sequestro dalla polizia tre giorni prima delle elezioni [18]. Nonostante le accuse di irregolarità da parte delle forze curde, le elezioni sono un successo per Erdogan che rafforza la sua leadership ed ottiene la maggioranza assoluta in Parlamento [19]. La vittoria di Erdogan amplifica le tensioni con i curdi, all’interno dei quali si rompe il fronte: il PKK accusa l’HDP di essere “troppo morbido”, abbandona definitivamente la strada della tregua, e decide di rispondere al governo turco con la forza costruendo trincee in numerose città. Diyarbakir, che la nostra delegazione aveva conosciuto come fiorente capoluogo in cerca di riscatto economico, che scommetteva sul turismo, le cui antiche mura che si aprono sulla valle del fiume Tigri venivano, proprio in quei giorni di luglio del 2015, riconosciute dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, dopo soli due mesi dalle elezioni, è devastata dalla guerra civile [20, 21]. Il centro storico, in particolare, che ospita una bellissima moschea, è altamente compromesso (la foto in alto si riferisce proprio al centro storico di Diyarbakir). La distruzione del patrimonio storico e architettonico è denunciata in diversi documenti, tra i quali quelli dell’Associazione Europa Nostra [22]. La città di Cizre, al confine con la Siria, è distrutta a causa degli scontri tra militari turchi e PKK. Da metà dicembre 2015 a Cizre è stato dichiarato il coprifuoco che è stato revocato solo parzialmente tre mesi dopo. Durante questo intervallo di tempo in migliaia hanno dovuto abbandonare le loro case e sono state uccise più di 650 persone da parte dell’esercito turco, tutti “terroristi” curdi secondo le forze militari, ma diverse fonti parlano di vittime civili, tanto che l’HDP accusa il governo turco di genocidio [23, 24, 25, 26]. Si susseguono arresti di massa che riguardano oppositori politici, sindaci delle città curde e giornalisti che criticano le politiche oppressive di Erdogan. Perfino una giornalista tedesca, Ubru Umar, nell’aprile 2016, finisce nelle mani della polizia turca [27]. I numeri sulla libertà di stampa in Turchia sono eloquenti: 900 giornalisti licenziati tra gennaio e giugno 2016, 100 mila siti web bloccati, più di 200 giornalisti aggrediti, diverse televisioni e radio e numerosi giornali chiusi [28]. Per chi volesse approfondire, una puntuale relazione di tutte le efferatezze di cui si è reso protagonista il Governo di Erdogan, elaborata dall’HDP, è disponibile qui. Più passa il tempo e più Erdogan costruisce uno Stato autoritario e repressivo. Il 17 maggio viene votata in Parlamento una riforma costituzionale che prevede la fine dell’immunità parlamentare. Questo provvedimento consentirebbe a molti deputati curdi di essere processati per terrorismo [29]. Il Primo ministro Davutoglu, che non garantisce sufficiente appoggio alle politiche repressive di Erdogan (pensate!), viene costretto alle dimissioni. Al suo posto viene eletto dal Parlamento, il 22 maggio, Binali Yıldırım, ex ministro dei Trasporti [30]. Yildirim promette una nuova riforma costituzionale di stampo presidenzialista che accentrerebbe ulteriormente il potere nelle mani di una sola persona. Come esempio dell’impostazione repressiva del suo governo, il 29 giugno, la polizia usa gas lacrimogeni su alcuni manifestanti che avevano provato a celebrare il gay pride, nonostante le autorità avessero negato l’autorizzazione [31].

GLI ATTENTATI
Durante l’ultimo anno il PKK ha rivendicato alcuni attentati ai danni di poliziotti e militari. Un altro gruppo curdo, i Falconi del Kurdistan (Tak), che si slegò dal PKK perché contrario a trovare soluzioni di mediazione con Ankara, si rende protagonista invece di tre attentati, uno il 17 febbraio ad Ankara (in cui perdono la vita 29 persone), l’altro il 13 marzo, sempre ad Ankara (37 morti), il terzo il 7 giugno ad Istanbul (4 morti) [32, 33]. Ma è dallo Stato Islamico che la Turchia subisce il più grave attentato e l’ultimo in ordine di tempo. Il 28 giugno tre attentatori hanno aperto il fuoco nel terminal dei voli internazionali dell’Aeroporto Internazionale di Istanbul, poi si sono fatti esplodere quando la polizia ha cercato di fermarli [34]. 41 morti e più di 250 feriti. E’ la prima volta che la Turchia subisce un attentato di matrice ISIS che non sia diretto alle popolazioni curde. Questo attentato non si spiega se si pensa alle relazioni tra la Turchia e lo Stato Islamico, se non ipotizzando una stretta degli Stati Uniti nei confronti di Ankara perché partecipasse più attivamente alle operazioni militari in Siria cercando di colpire gli obiettivi “giusti”, non quelli curdi o quelli filo-Assad.

LE RELAZIONI CON IL MONDO
La Turchia in questi ultimi anni, se all’interno dei suoi confini, come abbiamo visto, si è rivelata tutt’altro che equilibrata, al di fuori si è barcamenata tra l’appoggio al Gruppo Stato Islamico perché giocava a vantaggio della lotta contro i curdi e contro il governo siriano di Assad, la presenza nella NATO e il suo ruolo indispensabile come avamposto occidentale in Medio Oriente, le relazioni con l’Unione Europea. Forse c’è stata un’occasione in cui la situazione è sfuggita di mano, quella dell’abbattimento di un aereo russo nell’autunno del 2015 [38]. Ma è proprio nella relazione con l’Unione Europea che si registra l’ipocrisia assurda da parte dei governi occidentali. Da tempo la Turchia ha chiesto l’adesione all’Unione Europea [35]. Importanti passi in avanti sono stati fatti in questi ultimi mesi, quando, nel pieno della guerra civile, di fronte all’evidente violazione di diritti fondamentali per le politiche comunitarie, come la libertà di stampa o la libertà di orientamento sessuale, di fronte alle politiche quantomeno ambigue di Ankara con i terroristi di ISIS, viene sottoscritto, il 17 marzo, un accordo sulla gestione dei migranti [36]. L’accordo prevede fondamentalmente il respingimento dei migranti in Turchia. I migranti e i profughi sulla rotta balcanica, siriani compresi, vengono rimandati in Turchia se non presentano domanda d’asilo presso le autorità greche. In cambio l’Unione Europea promuove aiuti finanziari alla Turchia, la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi che vogliono entrare in Europa e l’adesione della Turchia nell’Unione Europea [37]. Qui una profonda riflessione su come l’Europa, in modo meschino, abbia voltato la faccia alla miseria umana che scappa dalla guerra andrebbe fatta, consapevole anche delle condizioni alle quali vengono sottoposti i profughi in Turchia [37]. Ci limitiamo a dire che in questo caso, giocando a mettere la sabbia sotto al tappeto, l’Europa non è stata proprio all’altezza dei valori che si vanta di promuovere. Comunque, tornando alla Turchia, il doppiogiochismo di Ankara si riflette anche nella concezione dello Stato. La Turchia è formalmente un Paese laico, ma gli ultimi anni hanno segnato una politica profondamente islamista del premier Erdogan, che infatti ottiene l’appoggio di gran parte del mondo religioso. Questo aspetto si è rivelato durante il tentativo di colpo di stato, quando gli imam sono stati utilissimi megafoni per richiamare le folle nelle piazze contro i militari golpisti.

CONSIDERAZIONI DOPO IL TENTATIVO DI COLPO DI STATO
Dunque, alla luce di quanto abbiamo detto, il tentativo di colpo di stato NON E’ STATO UN EVENTO ISOLATO, ma si inserisce in un contesto complesso in cui in Turchia la guerra civile è già in corso da un anno, da quando praticamente la nostra delegazione ha visitato il kurdistan turco. Non si conoscono le cause del golpe. Una interessante riflessione arriva dall’analista Yavuz Baydar, che parla di diversi “segnali sul fatto che i militari erano stanchi di sopperire alla drammatica situazione sul confine siriano”. Baydar sostiene che “Il presidente Erdogan ha esagerato e i militari hanno detto “basta”. Il Sud-Est del Paese è a fuoco e fiamme da mesi. I rapporti con gli alleati della Nato sempre più critici a causa della politica estera seguita per anni dal leader dell’Akp. I soldati morti sono a centinaia. Non potevano più stare a guardare” [39]. Certo è che la vittoria sui golpisti servirà ad Erdogan per rafforzare ulteriormente la sua autorità, promulgare nuove leggi repressive ed intensificare la sua azione di potere su tutto lo Stato.