Carbonia.net segue da vicino tutte le giornate del Carbonia Film Festival, con particolare attenzione ai film in concorso.
L’8 ottobre abbiamo documentato tutta l’anteprima, in un articolo che potete trovare cliccando qui.
Oggi vi racconteremo il day 1 del 12 ottobre e lo faremo seguendo l’ordine cronologico della nostra esperienza.
Alle ore 17.00 siamo stati invitati all’incontro, a porte chiuse, con Vinicio Marchioni e Milena Mancini. I due attori hanno poi eseguito, alle 20.30, il reading di A Calais di Emmanuel Carrère, un testo che racconta, in particolare, il difficile rapporto tra gli abitanti di Calais e i profughi che, dalla città francese, cercano disperatamente di raggiungere l’Inghilterra.
Come si è detto, la migrazione è una tematica centrale del Carbonia Film Festival e nella serata del 12 ottobre è emerso in particolar modo che sia nell’andar via, sia nel ricevere migranti nella propria città o regione, le problematiche restano molto simili ovunque si guardi. E sono problematiche difficili.
Per queste ragioni abbiamo chiesto a Vinicio Marchioni e a Milena Mancini di raccontarci cosa significhi lavorare da attori su un tema così complesso. Due domande semplici, ma sulle quali ci sarebbe tanto da dire.
Carbonia.net: La migrazione non è complessa solo a livello concettuale, ma anche e soprattutto negli effetti del fenomeno. È problematica sia per chi va via dal proprio paese, sia per chi riceve i migranti. Qual è allora il punto di riferimento per l’artista che, tra tutta questa confusione, lavora su queste tematiche?
Milena Mancini: Io sono un’attrice, quindi non posso dare opinioni troppo nette schierandomi o da una parte o dall’altra. All’artista compete il cercar di far rivivere, attraverso l’arte, lo spostamento delle masse e l’accoglimento delle persone. In realtà questi sono dei movimenti che io interpreto in chiave artistica, perché sono dei cambiamenti che il mondo sta avendo. Il prodotto artistico si realizza come frutto di questi cambiamenti. Il marmo subisce il colpo dello scalpello, ma questo è un passaggio obbligato per arrivare a vedere l’opera d’arte.
Vinicio Marchioni: L’artista fa soltanto da tramite. Basti pensare a stasera: siamo stati chiamati per aprire quest’edizione del Carbonia Film Festival e partiremo dal reportage di un grandissimo autore sulla “giungla” di Calais. L’artista, in questo caso noi, fa quindi da tramite tra un autore e un pubblico. Nel caso del testo di Carrère ciò che colpisce è proprio la molteplicità dei punti di vista scelti dallo scrittore. Lui non vuole semplicemente dare un suo parere sulla giungla. Nemmeno ci entra nella giungla. Carrère va in giro per il centro della cittadina e ci fa vedere molti punti di vista rispetto al problema dell’immigrazione e delle persone che stanno lì cercando di attraversare quel pezzo di mare per andare in Inghilterra. Se ognuno di noi continuerà ad assumere soltanto il proprio punto di vista, per forza di cose continueremo a fare muro contro muro con chiunque venga da noi, sia per stare qua, sia per attraversarci in modo da poter andare altrove. Dobbiamo sempre domandarci da dove proviene l’altro, perché ha deciso di non rimanere nel luogo in cui stava, dove vuole andare, quali sono i suoi sogni e le problematiche reali. Ci sono persone che hanno dietro delle vere e proprie tragedie umane.
Carbonia.net: La tendenza naturale dell’uomo, così come di qualsiasi altro animale, è quella di guardare in primo luogo nella propria cerchia di appartenenza. I propri familiari sono forse gli individui con i quali si empatizza maggiormente, poi vengono le persone più vicine e più simili. Cos’è allora che può portare un artista – o più in generale un essere umano – a voler empatizzare in modo forte con persone che invece risultano più lontane, sia geograficamente sia culturalmente?
Milena Mancini: Io penso che questo processo dipenda dall’apertura e dall’intelligenza della persona. Straniero per noi artisti può essere persino chi non fa parte della compagnia. Quando l’attore è fuori da un certo gruppo può capitare che si senta letteralmente uno straniero. Dico che è una questione di apertura e intelligenza proprio perché se tu riesci a capire che lo “straniero” può alimentare quello che tu stai vivendo e se sei aperto ad accogliere questa cosa, allora puoi anche crescere. Guardare le persone dall’esterno e giudicarle senza neanche dar loro il modo di esprimersi o capire rende impossibile questa crescita.
Vinicio Marchioni: Per quanto mi riguarda è semplicemente la curiosità. Nel senso che io credo fermamente che ogni essere umano è mio fratello. Io non riesco a trovare differenze tra un nigeriano, un indiano, un cinese, un australiano e via dicendo. Le differenze sono in come si vive la vita e in come si agisce nella vita. Un uomo che si possa definire tale credo debba avere la curiosità nell’incontro – incontro che vuol dire anche confronto. L’incontro, lo scontro e il confronto sono tre attitudini dell’essere umano da cui non possiamo prescindere. Tutto dipende da come queste cose si applicano.
La lettura di A Calais si è svolta alle 20.30, dopo la presentazione dei bellissimi lavori di Lorena Canottiere, prevista per le 18 (lavori che potete vedere all’ingresso del Cine-Teatro e che prendono spunto da due volumi a fumetti della Canottiere, ovvero Oche e Verdad)
Vinicio Marchioni e Milena Mancini hanno effettivamente fatto da tramite a un testo straordinario, che riesce a universalizzare prospettive individuali nate in quello specifico luogo francese, permettendo all’ascoltatore di farne tesoro in modo sia specifico sia generale.
Le parole pronunciate su Calais, potrebbero essere applicate tanto a Carbonia quanto a Milano e probabilmente a qualsiasi altra città del mondo che affronti questo dramma. E smuovono la riflessione così come i sentimenti.
Diciamo dramma citando lo stesso Emmanuel Carrère, che nel suo testo afferma che di pro per il fenomeno dei migranti, non ce ne sono.
Basti pensare alla situazione riscontrabile nelle strade in cui transitano i camion, raccontata nel testo. Da una parte il migrante. Chissà quanta sofferenza ha dovuto sopportare. Disperato e stremato, dopo aver passato chissà quante notti tra il fango e il freddo cerca, alla prima occasione, di salire su uno dei camion che vanno al porto.
L’altra prospettiva è quella del camionista, schiacciato dal terrore su più fronti: da una parte la paura d’investire qualcuno (decine di persone disperate, col buio, assaltano letteralmente la circonvallazione e tentano di rallentare in qualsiasi modo il traffico per distrarre i numerosi controlli e salire su un mezzo in direzione del porto). Dall’altra la paura di essere aggredito. Paura di fare del male, paura di subirlo.
Non è certo tutto qui, perché i pochi che riusciranno a raggiungere il porto dovranno superare ulteriori rigidi controlli. Tecnologie per il rilevamento, cani addestrati, attente perquisizioni. Insomma, un incubo. E lo è per tutti.
Da questo scenario, tuttavia, emerge un fatto di assoluta rilevanza. Ed è un fatto duplice almeno quanto il problema stesso. Il punto è che la disperazione diventa espressione intelligibile di una grande fame di vita. Dal disagio emerge la voglia di vivere. E se ogni individuo, considerato singolarmente, risulta impotente se messo faccia a faccia con il gigantesco problema dei migranti, ognuno può fare, tuttavia, la cosiddetta “parte del colibrì“. Poche gocce ciascuno, per spegnere un gigantesco incendio.
RECENSIONE – After Spring
Regia di Steph Ching e Ellen Martinez
Genere: Documentario (Stati Uniti, 2016, 101′)
After Spring è il frutto dell’esordio al lungometraggio di Steph Ching e Ellen Martinez, due registe diplomate alla New York University. È ambientato a Zaatari, in Giordania, il più grande campo profughi per rifugiati siriani al mondo e racconta la storia di alcune famiglie fuggite dalla Siria, due in particolare, e di alcuni operatori umanitari.
Il film inizia con una breve sintesi del dramma siriano. Nel marzo del 2011 in Siria tantissime persone, stremate dal regime, mettono in atto una protesta pacifica. Alcuni forse l’avevano ipotizzato, per altri risultò totalmente inaspettato, ma la folla venne attaccata, inizialmente con i proiettili per poi passare ai missili. In breve diventò una tomba.
Nel corso del lungometraggio vengono raccontati esplicitamente alcuni episodi drammatici, ma altri ancora – la maggior parte – sono intuibili osservando direttamente nelle persone le conseguenze delle atrocità vissute. In ogni caso, a partire da queste vicende, i siriani hanno iniziato a lasciare il proprio paese. Occorre prestare attenzione all’elaborazione di questo fatto, poiché i profughi, almeno quelli documentari nel film, amano la Siria. Sono arrivati al limite prima di abbandonarla. E restano in fremente attesa anche solo di un minimo abbassamento della soglia di pericolosità e insopportabilità, per poter tornare a casa.
Il campo Zaatari ospita ormai oltre 80.000 rifugiati (dato del 26 marzo 2015 presente su wikipedia en) e sta diventando una sorta di città fatta di tende e roulottes. Anche qui, come in altri luoghi, la fuga disperata ha avuto alla base una forte voglia di vivere, che nel campo ha trovato espressione, praticamente da subito, nel lavoro. Sono state aperte botteghe, pizzerie e ristoranti. Si possono inoltre trovare servizi di ogni genere e tra i bambini si è diffuso il taekwondo, grazie a un maestro-volontario pieno di passione e voglia di guidare positivamente l’energia dei giovani rifugiati. Insomma, il futuro della Siria va costruito nel presente. E il presente è all’interno del campo Zaatari. Qui possiamo vedere persone distrutte a livello psicologico e fisico che tuttavia sorridono, piene di vita.
Nel buon documentario di Steph Ching e Ellen Martinez possiamo trovare anche una risposta concreta a un pregiudizio tipicamente italiano, quello dei “migranti con lo smartphone”.
Già da qualche anno, smartphone totalmente superati nei paesi più ricchi, possono risultare ancora perfettamente funzionali. Questi telefoni possono essere procurati anche gratuitamente. E i rifugiati letteralmente desiderano lo smartphone con internet, perché questo è per loro un mezzo fondamentale per restare aggiornati sulla situazione della Siria, in modo da poterci tornare. Di fatto queste sono persone che per l’assistenza alimentare non ricevono più di 1 euro al giorno. E nonostante ciò è assolutamente normale che abbiano lo smartphone.
Tecnicamente il documentario è girato egregiamente. Nonostante sia un lungometraggio “opera prima”, anche il montaggio riesce a far seguire perfettamente le storie di tutti i personaggi coinvolti, in modo chiaro e scorrevole.
Le criticità riscontrabili nel film sono grossomodo due.
La prima è che la scelta del girato sembra essere stata guidata in modo eccessivo da idee precedenti all’esperienza fatta. In altre parole, si è fatto un lavoro documentario nel tentativo di far emergere un messaggio che a noi è sembrato scelto in precedenza. Le storie raccontate sono genuine e importanti da conoscere, ma forse si poteva dare qualche piccolo spazio in più anche ad altre realtà presenti nel campo. In quel contesto si possono trovare individui e famiglie di ogni genere e non basta accennare al fatto che la notte bisogna fare attenzione perché alcune persone si ubriacano e diventano pericolose. Viene sì raccontata la richiesta d’aiuto da parte di una mamma per il marito che picchia i propri bambini, ma si cerca anche qui di seguire il ridimensionamento al fatto della stessa moglie, che colpevolizza lo stress e non la persona. Sarebbe stato bello insomma avere uno sguardo più ampio sull’intera situazione – operazione che non necessariamente avrebbe compromesso la narrazione delle vicende scelte.
Questo difetto risulta particolarmente accentuato in relazione alla seconda criticità, relativa ad almeno 15 minuti di ridondanza. Alcune scene e alcuni pezzi di girato ci sono sembrati eliminabili o sostituibili. E ogni minuto di troppo, nelle tempistiche cinematografiche, può risultare un’eternità.
Articoli precedenti:
CFF – DAY0: recensione all’anteprima dell’8 ottobre
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CFF – DAY2: le recensioni dei film in concorso
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